Il primo tentativo, due giorni prima dell’inizio del Ramadhan, era fallito. Le cariche esplosive avevano frantumato la sommità della parete di roccia, alta 40 metri, senza scalfire l’imponente rilievo del Buddha in “padmasana”, la posizione del loto. Ma nella notte del 29 settembre i taliban sono tornati. E hanno portato a termine la loro missione: distruggere l’“idolo di pietra” che nella distorta e primitiva interpretazione del Corano dei seguaci di Osama Bin Laden offende la religione del Profeta.
La colossale statua rupestre di Jehanabad, nella valle dello Swat, è stata irrimediabilmente danneggiata dalla furia iconoclastica delle milizie jiahdiste che imperversano nelle aree tribali al confine con l’Afghanistan. Dopo la demolizione dei Buddha di Bamiyan, fatti saltare con la dinamite nel marzo 2001, un’altra preziosa memoria del patrimonio culturale universale è stata assassinata.
“Erano le 3 del mattino” racconta Mustaqim, un contadino del villaggio. “Stavo portando al mullah della moschea il sehri, il pranzo che consumiamo prima dell’alba durante il Ramadhan, quando li ho visti arrivare, a bordo di una decina di veicoli, armati di mitragliatrici e di martelli pneumatici a benzina. Non so chi fossero. Mujahiddin: parlavano la nostra lingua, il pashtu, ma non era gente della valle. Ci hanno intimato di restare in casa, hanno sequestrato i telefoni cellulari e sono spariti sul sentiero. Un’ora dopo ho sentito le esplosioni. Era un’operazione pianificata”.
Salgo tra i frutteti e le terrazze coltivate a riso e mais. E’ un cammino millenario, segnato da consumati gradini di pietra e da iscrizioni in sanscrito. Una via sacra che conduce ai piedi del gigantesco masso in cui è scolpito il Buddha: 6 metri per 5, ritenuto il più grande in Asia dopo i Buddha di Bamiyan. “Di eccezionale importanza” si legge nelle note degli archeologi italiani che da mezzo secolo lavorano nello Swat. “Il panneggio mima una stoffa sottile; volto largo e massiccio, con bocca piccola e carnosa ravvicinata al naso, occhi socchiusi, molto grandi e allungati”.
Il volto non esiste più. All’altezza della fronte si scorgono i fori dei martelli pneumatici e le strisce di fumo nero lasciate dalle esplosioni. A terra ci sono schegge, frammenti, e i macigni staccatisi dalla rupe sovrastante. Il corpo e il trono, crivellati di proiettili, sono ancora in buono stato. Ma i mujahiddin hanno promesso di tornare. “Si tratta del più grande dei circa 160 rilievi buddhisti dello Swat” spiega Luca Maria Olivieri, vicedirettore della Missione archeologica italiana in Pakistan, che sta curando per l’Isiao (Istituto italiano per l’Africa e l’Oriente) la pubblicazione dell’intero corpus dei rilievi rupestri. “Fu scoperto da sir Aurel Stein nel 1929 e studiato nel 1956 da Giuseppe Tucci: risale al VII secolo, fase tarda del buddhismo nel Gandhara, quando circa 200 delle 1000-1500 fondazioni monastiche furono restaurate dai monaci della scuola Tantrayana e Vajrayana”.
La fertile valle dello Swat (in sanscrito Uddiyana, “giardino”), situata a nord della piana di Peshawar, è stata da sempre un crocevia di culture, di pellegrini e di carovane di mercanti dirette in India e in Cina. Alessandro, nel 327 a.C., vi fece svernare le sue armate, al riparo dagli attacchi delle bellicose tribù afghane che popolavano i monti a nord del fiume Kabul. E da qui, nella seconda metà dell’VIII secolo, partì Padmasambhava, il fondatore del buddhismo tibetano. La Missione archeologica italiana avviata da Tucci, la prima a lavorare in Pakistan, ha scoperto migliaia di sculture gandhariche, pitture, siti d’arte rupestre, città ellenistiche e antiche moschee. “Non abbiamo mai avuto problemi con le maestranze e i collaboratori locali” assicura Olivieri. Che tuttavia la scorsa estate ha dovuto rinunciare alla consueta compagna di scavi.
Hamid Khan, che abita con le sue pecore e una frotta di bambini in un casolare a 200 metri dal Buddha, è terrorizzato. “Non so chi è stato” balbetta. “Ho visto solo delle ombre con le torce e ho sentito le esplosioni. Non possiamo parlare con loro, altrimenti ci sparano”. Dopo il crollo del regime talibano in Afghanistan centinaia di combattenti stranieri, ukbeki, arabi e ceceni, hanno usato lo Swat come retrovia del jihad, sposandosi e insediandosi in piccole comunità sulla riva destra del fiume.
A loro si deve la progressiva talibanizzazione della valle, la creazione di campi di addestramento per la guerriglia, l’incremento degli attentati, l’uso degli Ied (gli esplosivi improvvisati utlizzati in Iraq e in Afghanistan) e l’impiego dei kamikaze, pratica contraria all’etica pashtun. Nelle aree tribali del Pakistan, dal Baluchistan al Waziristan, fino alle impervie catene montuose delle Province di frontiera del nordovest e alla valle dello Swat, i jihadisti hanno trovato un rifugio sicuro e un fecondo bacino di reclutamento.
Hassan, la guida, dice che è meglio affrettarsi. I dintorni sono infidi. A Jehanabad vivono i famigliari di alcuni giovani radicali scomparsi dopo il massacro dello scorso luglio nella Lal Masjid, la moschea rossa di Islamabad. La polizia non si azzarda ad avventurarsi sul posto per verificare i danni arrecati al Buddha, e tantomeno a svolgere un’inchiesta. L’esercito è asserragliato nelle caserme. La paura e l’insicurezza si respirano nell’aria, si leggono negli sguardi obliqui dei passanti.
“Cosa ci fa qui?” esclama sorpreso Haj Khone Ghol, custode degli scavi a Udegram, un sito archeologico nei pressi di Ghaligai, dove un altro Buddha è stato da tempo vandalizzato. “Sono due anni che non vediamo un giornalista straniero! Tre giorni fa un kamikaze è saltato in aria mentre preparava un attentato, qui vicino, in un quartiere di Mingora. Risalga in macchina, la prego, e se ne vada. E’ in pericolo. Vede quelle case? Ci stanno già osservando”.
Nei bazaar e nelle strade dell’ex “Svizzera del Pakistan” non circola una sola donna, neppure col burqa: sono confinate in casa da una fatwa del maulana Qazi Fazlullah, che dai microfoni di una radio clandestina invoca l’applicazione della sharia e il venerdì, in sella a un cavallo bianco, arringa con un megafono una folla di zeloti di fronte alla moschea del villaggio di Imam Dehri. Nei suoi infuocati sermoni esorta i discepoli a bruciare tv, computer, cd, videoregistratori e i negozi dei barbieri, spiega che il vaccino antipolio è una diabolica cospirazione occidentale per sterminare i musulmani e minaccia i genitori che osano mandare le bambine a scuola. Quattro istituti sono stati bombardati nell’ultimo anno e più di mille bambine hanno disertato le lezioni: il tasso di alfabetizzazione femminile è inferiore al 20 per cento, contro una già avvilente media nazionale del 40 per cento.
Fazlullah, che ha 28 anni e si considera un seguace del mullah Omar, è il genero del maulana Sufi Muhammad, leader (ora in carcere) del fuorilegge Tehrik-i-Nifaz-i-Sharia-i-Mohammedi (Tnsm), il Movimento per l’applicazione della legge del Profeta, che nell’ottobre 2001 spedì in Afghanistan più di 10 mila volontari a combattere contro i marines impegnati nell’operazione Enduring Freedom. Ma il Tnsm non è un gruppo isolato. Il generale golpista Pervez Musharraf, riconfermato alla presidenza nella farsa parlamentare della scorsa settimana, e l’esule di ritorno (atterrerà a Karachi il 17 ottobre) Benazir Bhutto, che con l’appoggio di Washington spera di formare un esecutivo civile, dovranno gestire una nazione di 160 milioni di abitanti che rischia di implodere.
L’intera regione ai confini afghani, il “pashtunland” dove con ogni probabilità si nascondono Bin Laden e Ayman al-Zawahiri (che in un recente messaggio ha dichiarato guerra al “traditore” Musharraf) e dove fino al 2002 l’esercito non aveva mai messo piede, è di fatto governata dai taliban, dai jihadisti pakistani e da al-Qaeda. I centomila soldati schierati da Islamabad nella lotta al terrorismo, con un bilancio provvisorio di oltre 5 mila morti, sono costantemente nel mirino di una pletora di movimenti armati spesso appoggiati da ex ufficiali dell’Isi, i servizi segreti: 240 soldati sono stati presi in ostaggio in agosto in Waziristan dai fondamentalisti senza sparare un colpo; 28 si sono arresi il 6 ottobre; altri 50 sono “scomparsi” due giorni più tardi, dopo un conflitto a fuoco che ha lasciato sul terreno 80 vittime tra militari, civili e miliziani.
Intanto le fucine delle 27 mila madrase wahhabite continuano a sfornare legioni di seminaristi votati al martirio. Sono i nuovi apostoli di una guerra santa globale: contro gli infedeli in Afghanistan e in Iraq, contro gli invasori indiani nel Kashmir, contro gli apostati sciiti. E contro il fedifrago regime che dopo averli allevati, incoraggiati e finanziati ha deciso di ripudiarli, vendendo l’anima – e la prima potenza islamica nucleare – all’odiato Grande Satana americano.
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